lunedì 27 agosto 2007

SERIE A: PRIMA GIORNATA DI CAMPIONATO


Cinquina della Juventus contro un modesto Livorno.
Roma autoritaria e matura. Splendida prestazione alla “Favorita”.
Milan devastante a Marassi.
Inter in difficoltà contro una volenterosa Udinese.


I bianconeri offrono una buona prestazione complessiva con rotondo risultato finale che esalta e ribadisce, ancora una volta, la grandezza di David Trezeguet. Il franco-argentino regala una prestazione sublime evidenziando i migliori elementi del suo ampio repertorio: colpo di testa su splendido cross di Del Piero; perfetto diagonale nell’angolo basso dal limite dell’area di rigore dopo ottimo movimento; opportunismo cinico con colpo di tacco a porta sguarnita. Ed è tripletta.
Un buon Del Piero - tradizionale esempio di equilbrio, classe e maturità - sostiene la squadra sino alla sostituzione con Vincenzo Iaquinta. Il calabrese entra, smania, trasforma un (generoso) rigore procuratosi con astuzia; non si sottrae alla buona sorte in occasione del tiro scoccato da Pavel Nedved che lo colpisce ed entra in rete. Un po’ Ravanelli…un po’ Inzaghi (sotto il profilo della fortuna, ovviamente).
L’uomo di Cheb è ancora l’eterno motore del centrocampo juventino. Non molla mai, crea, non si distrae; solito agonismo e qualità.
Almiron, volenteroso e propositivo, non demerita. Peccato per gli errori al tiro. Nocerino si impegna molto sulla fascia. Il ragazzo è certamente interessante ma appare sacrificato in un ruolo non suo.
Zanetti assicura copertura e dinamismo, esperienza ed utilità. Con lui la squadra è sufficientemente quadrata, ma perde in qualità tecnica. Emerson e Viera sono davvero molto lontani.
La difesa, malgrado la sterilità offensiva della squadra di Orsi, è apparsa - ancora una volta – poco convincente. Rossini è completamente solo in area piccola in occasione dell’unica vera azione offensiva costruita dai labronici. Criscito, talentuoso ma inevitabilmente acerbo, necessiterebbe di un maestro che, ad oggi, Jorge Andrade non può ancora rappresentare.
Chiellini è il migliore del reparto. Offre grinta, senso di posizione, fisicità. E non è poco per una retroguardia che regala molto sulle palle alte.
Salihamidzic, preferito stranamente a Zebina, è ancora tutto da scoprire, soprattutto se impiegato come terzino destro.
Buffon, inoperoso nel corso dell’intera gara, subisce con troppa leggerezza la rete nel finale.


Le altre.



Roma. Totti e compagni garantiscono spettacolo e concretezza. Squadra costruita sapientemente dall'ottimo Spalletti. I capitolini, privi di molti titolari, sembrano aver assunto la maturità necessaria per ambire allo scudetto. Giuly, ottimo acquisto, è già inserito pienamente nei collaudati schemi giallorossi. Dopo la splendida gara di S. Siro contro l'Inter in supercoppa italiana, un'altra ottima prova contro il Palermo.


Milan. Supremazia esagerata dei rossoneri a Genova. Davvero imbarazzante per i padroni di casa il confronto con i campioni d'Europa. Troppo semplice, in attesa di rivedere in campo l'immenso Emerson.


Inter. Gara mediocre per gli uomini di Mancini. Il tecnico di Jesi non riesce a garantire un gioco alla propria squadra, nè a "leggere" bene la gara in corsa. Non si comprende pienamente il mancato utilizzo dal primo minuto di Chivu, nè convince l'ingresso tardivo di Suazo.
Il collettivo interista - superbo come pochi altri in Europa per quantità e qualità - si affida come sempre alla grandezza dei singoli, ancora non in ottime condizioni, pagando gli errori di una preparazione fisica tutta da rivedere. Ingenuo come pochi il portiere J. Cesar.
L'Udinese, dal canto suo, rappresenta anche quest'anno una realtà sana ed importante nel panormama calcistico italiano.



sabato 25 agosto 2007



RAIMUNDO ORSI

Simbolo della Juventus del quinquiennio e dell'Italia di Pozzo, ritratto di “Mumo” Orsi, l'oriundo che fece impazzire la Torino anteguerra.

La penna di Vladimiro Caminiti racconta...

AL TEMPO in cui in Italia solo Peppino Meazza coronava ed esaltava lo spirito unitario della squadra di calcio — la sua Ambrosiana Inter — alle così dette ali il copione affidava un compito complementare di corsa sul lato esterno, destro o sinistro del campo e di consequenziale traversone. Il primo che fu ala ma anche artista, saltabeccando o volando sui marcantoni di difensori stesi dal suo dribbling e dalle sue finte copie massi sull'erba, fu l'oriundo Raimundo Orsi detto Mumo. Alto 1,70 per 66 chili scarsi, aveva il classico faccino del denutrito e la Federazione pretese che rimanesse inattivo tutta la stagione 1928-29 per accertarne le certissime origini italiane, mentre le autorità politiche argentine tumultuavano contro l'ingerenza del Governo Fascista nelle cose del loro sport con quella trovata dell'oriundo che veniva a togliere al calcio bonaerense la sua stella. Stella di Amsterdam per l'esattezza, poiché Orsi era brillato di vivissima luce in quell'Olimpiade. Per capire chi è stato costui, per conoscerlo bene, io ho impiegato tantissimo tempo e non poco amore. Ho dovuto viaggiare e « trabajar» come un matto, ci sono voluti trentatré giorni dì Argentina, per raccogliere i messaggi che i poveri Mario Varglien e Luigi Bertolini, suoi ex compagni di squadra, mi avevano coloritamente trasmesso. Ma non è facile resuscitare gli idoli del passato. Quelle mie due interviste a quei due anziani ed un pò vaneggianti signori di una bella epoque più scritta nei cuori e nei muscoli che nei libri (per troppa retorica ufficiale ed anche per le reticenze ufficiali del suo aedo, monsù Vittorio Pozzo) aprirono a me la strada della comprensione di quel fenomeno calcistico che era la Juve Anni Trenta, cinque volte scudettata, con la sua signorilità e pure la sua modernità, con i suoi mille pregi ed i suoi umanissimi difetti, anche oscarwildiani, con un allenatore davanti al quale era proibito togliersi la mutanda, me l'ha detto Farfallino Borel. Orsi fu compagno di squadra di Borel, di Bertolini, di Varglien, di Combi, il portiere più veloce di un petardo («in collegio a Pinerolo lo chiamavano fusetta», racconta il fratello Maurizio), di Cesarini detto Ce col quale si divertiva moltissimo. Giunse in Italia nel 1928, ingaggiato dalla Juventus per centomila lire. Sbarcò nel porto di Genova: si vedeva un cappottone e, dentro, questo faccino aguzzo. «Tutto qui?», cominciarono a mormorare in giro, mentre lui andava a prendere posto in tribuna per vedersi malinconicamente i compagni giocare, la Juve arrivò seconda dietro il Bologna nel suo girone, per quattro e spesso per dieci dribblava Zizì Cevenini, stortignaccolo, vizioso, che aveva col pallone un legame più unico che raro, colpiva di punta e di striscio più che virtuosamente ed atterriva Combi anche in allenamento. Con Orsi ed anche col suo tracagnotto compare Monti che pareva una roccia, arrivò il calcio vero, il calcio dei fuoriclasse al servizio della squadra. Con poche battute Orsi convinse tutti del suo genio. Mazzonis, il vice presidente factotum della società, che non era per niente barone ma voleva essere chiamato barone - quello che può ritenersi uno dei più lungimiranti dirigenti della storia - gli fece assegnare da Edoardo Agnelli presidente del sodalizio dal luglio 1923, ottomila lire di stipendio, più una Fiat 509 ed una villa. Sesto anno dell'Era fascista, in Italia lo stipendio dell'impiegato medio era di trecento lire, un chilo di pane costava venticinque centesimi, un vestito da uomo 90 lire, il calcio entrava negli stadi patronescamente e nella graziosa e pulita Torino - pure i comignoli delle case ottocentesche puliti, mica come oggi, i tram scampanellanti festosi, i signori in bombetta e le “madamin covertissime” a passeggio in piazza San Carlo sotto i portici - c'era guerra tra juventini, simboli dell'aristocrazia e della retriva borghesia, e i granata, simboli del proletariato. Gli operai della Fiat, i più politicizzati, andavano alle partite non tanto per passione quanto per poter sgolarsi con «Forza rossi». Senza saperlo il mio amico Baloncieri e Rossetti che all'anagrafe faceva Rosetti, erano gramsciani. Il povero Gramsci moriva in un fondo di prigione mentre Orsi cominciava a saltabeccare e volare sul prato e cominciava l'epopea della Juventus, la squadra degli anni «anta» più grande, anche più vera, mai esistita. Una squadra con un ruolo sociale preminente perfino su quello sportivo, fare dimenticare agli italiani i guai, le tensioni, appacificare gli animi, fare sognare. E qui intervenne anche la stampa sportiva, con Bruno Roghi ma anche Carlo Bergoglio detto Carlin, con Mario Zappa e Nino Nutrizio ma anche Bruno Slawitz detto zìo Ciccio. Mumo Orsi era meno intemperante e più serio di Cesarini, ma anche lui abbastanza eccentrico. Coi soldi della Juventus, Mazzonis storcendo il baffo acconsentì, volle finanziare un'orchestra. Nelle ore libere era lì che ronzava sul suo violino di marca. Poi chiamava a casa Mario Varglien e gli diceva: «Ascolta questo tanghito!». Ma i tanghiti più radiosi Mumo li suonava coi piedi. Lui guadagnava anche per gli altri, ma non era generoso. Faceva però beneficenza. Non si presentò mai agli allenamenti col cappotto sopra il pigiama come Cesarini, era puntuale, precisino in tutto, più fine che volgare, amava le cineserie, i ninnoli, era tirchio ma non quanto Luisito Monti che all'estero rubava le coppe e i bicchieri nelle vetrine dei negozi.Mumo giocò 177 partite nella Juventus segnando 77 gol. In Nazionale giocò 35 volte e 13 furono le realizzazioni, i suoi gol erano capolavori. Li segnava direttamente dalla bandierina del corner, perché aveva - lo ha rivelato Meazza che se ne intendeva - il famoso «colpo sotto», imprimendo alla sfera una spinta velocissima tanto da mandarla al centro della porta. Improvvisa-mente, il pallone per l'effetto ricevuto cambiava direzione come se fosse stato preso da una raffica di vento e beffava il portiere. E quello che mi aveva raccontato di lui Mario Varglien, coi suoi occhi smisurati come la sua nostalgia, nella ragnatela delle rughe, avanzava su di me mentre il suo labbro vissutissimo evocava: «Orsi si infilava un jolly nella scarpa, Munerati andava a toccare, prima di giocare, il pizzo a Masino, un dirigente, Borel II calciava il pallone fuori, Caligaris si faceva il segno della croce tre volte, Monti era l'unico a rimanere serio... lo, Orsi e Caligaris passavamo le giornate insieme. Siamo molto uniti noi tre. Orsi è simpatico, suona il violino, un violino di marca. Suonava in un night club di Buenos Aires. Mi chiama spesso al telefono e mi dice: ascolta questo tanghito!». Varglien passava dal tempo passato al presente, come vaneggiando tra realtà e sogno. Ma più realtà che sogno era quella Juve, come testimoniano queste parole: «Combi in porta, Rosetta non marca nessuno, io penso all'ala destra, Bertolini all'ala sinistra, Monti marca il centravanti. Se l'avversario che dobbiamo affrontare ha classe allora la marcatura è seria, altrimenti si gioca come sappiamo noi, ignorando l'avversario. Quando dovevamo giocare contro Sindelar, il compito si faceva difficile perché Sindelar con Monti passava sempre. Ci facevano tremare anche il belga Braine e Meazza. La Roma e la Lazio erano le nostre bestie nere. In genere una squadra in maglia azzurra. Chissà perché. Una volta Faotto, che correva come un matto, voleva picchiare Orsi. Mumo ha mosso il piedino come sapeva fare lui e Faotto è finito all'ospedale. Quando si vinceva lo scudetto c'erano serate d'onore per noi al Regio o al Carignano. Orsi era il più pagato, prendeva più di mille pesos, circa ottomila lire al mese».
L'italianissima Argentina mi ha fatto afferrare ancor meglio la grandezza di Orsi detto Mumo, ala sinistra della Nazionale campione del mondo 1934 ed autore del gol più bello mai visto segnare da Bertolini, quel vecchio vaneggiante che intervistai nel suo mobilificio nel 1973: «Orsi era completo anche se non giocava molto di testa. Usava destro e sinistro con la stessa potenza. Gli ho visto fare il gol più spettacoloso, forse il più formidabile che abbia mai visto nella mia carriera. Fu il gol del pareggio nella finale a Roma con la Cecoslovacchia del campionato del mondo. In profondità Monti a Guaita, il quale scende lungo la linea laterale e crossa dà destra a sinistra, altissimo. Orsi seguiva l'azione di Guaita e colpiva il pallone al volo col destro, infilando da fuori area l'angolino sinistro più lontano della porta di Planicka».Vladimiro Caminiti